di Massimo Rizzante
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Chi è stato a un certo punto della Storia, sul finire del XX secolo, a decretare che le fiction televisive americane ci hanno formato durante la nostra adolescenza più della lettura dei sonetti di Shakespeare?
O a stabilire che una ballad dei Pink Floyd, grazie alla quale i nostri sensi si accendevano per qualche minuto come falò benigni in mezzo alle sparatorie del «Belpaese della Politica» (Goffredo Parise), ha avuto su di noi la stessa forza d’urto di un quadro di Francis Bacon?
Chi è stato quel bellimbusto, quel figlio di puttana, quel genio incompreso che per farsi largo fra i palinsesti infernali del paradiso della comunicazione ha dettato all’umanità la Suprema Equazione: tutto è uguale a tutto?
«Il problema del valore è un problema ormai superato dalla cancellazione effettiva e irreversibile delle divisioni tra cultura alta e cultura bassa, postulata e messa in opera nell’epoca mass-mediologica postmoderna». Ecco: chi è stato a dare la stura ad analisi definitive come quella qui riportata in uno dei tanti manuali di uno dei tanti apparatnik della critica degli inizi del XXI secolo?
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Dopo tale annuncio, a una gran fetta dell’umanità non è parso vero di giustificare la sua impotenza, la sua disfatta, il suo sollievo: basta con l’Arte, con la Cultura! Basta con l’ardua difficoltà dell’Opera Moderna! Evviva la new epic salsa! Evviva la lap poetry!
Da quel momento si è scatenata una gara a minimizzare le vette, a innalzare i deretani alle cosiddette pressioni editoriali; a mostrare, di performance in performance, freneticamente i muscoli; a celebrare sui palchi, o in prestigiose riunioni di affiliati all’Espressionismo pop, i creatori di celebri motivetti su quattro accordi; a esaminare con i bisturi della neuroestetica «l’apporto esperienziale» della ricezione dei manga in Occidente; a coprire con il velo di Maya del new Historicism, per il quale documento e monumento sono la stessa cosa, le vergogne di una letteratura incarcerata nell’ideologia, sia essa yankee, orientalista o aborigena…
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Un amico, per gettare acqua sul fuoco, o forse solo un salvagente alla mia anima in pena, mi parla di Bianca, il film di Nanni Moretti: «Ti ricordi? Era il 1983, solo qualche anno prima di quello che tu una volta ha chiamato l’annuncio del Grande Onanista».
La scuola in cui insegna il protagonista si chiama Marilyn Monroe. Un istituto tanto sperimentale quanto surreale. Chi insegna che cosa?
Un professore di storia tiene lezioni sulla musica leggera vicino a un juke-box. Il segretario Edo, un prodigio che non sa né leggere né scrivere, delizia il corpo insegnante al pianoforte. Il preside con piglio manageriale terrorizza un mite professore poco aggiornato con una formula profetica: «Qui non si forma, ma si informa». L’insegnamento della matematica è un’opzione tra una partita a flipper, la pista elettrica e una slot-machine. In ogni classe al posto della foto del Presidente della Repubblica c’è quella di Dino Zoff, allora portiere dell’eterno «Belpaese della Politica», che l’anno prima, al culmine degli anni di piombo, aveva vinto in Spagna i mondiali di calcio.
Ho detto istituto surreale, perché all’epoca si rideva delle enormità che accadevano in quel posto. Si rideva perché si percepiva che la realtà era stata deformata. Deformata e perciò comica. Si rideva e si criticava l’Arte, la Cultura, come quando, tra una puntata e l’altra di qualche fiction televisiva, si sfogliavano le avventure di Rabelais e dei suoi personaggi alle prese con quei sorbonardi a cui non riusciva di entrare in testa perché mai qualcuno, invece di studiare i sacri testi, venisse in mente di pisciare da un campanile o di scagliare in mare aperto un intero gregge di pecore.
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Tuttavia oggi, dopo l’annuncio del Grande Onanista, che le serigrafie di Andy Warhol, il più influente artista del secondo metà del XX secolo, sono appese alle pareti degli hotel a cinque stelle e sui muri ridipinti delle camere dei campus, che la scuola e l’università, con l’avvallo di eminenti pedagoghi cognitivisti, sono diventati luoghi di animazione culturale dove si «insegna l’ignoranza» (Jean-Claude Michéa) con tanto di psicoterapeuti di sostegno – proprio come nel film di Moretti –, oggi che molti studenti italiani sono convinti che Dino Zoff sia stato Presidente della Repubblica, che a nessuno è stata negata da insigni sorbonardi una Laurea honoris causa, che il Surrealismo è diventato doc-fiction, oggi diventa difficile ridere. La realtà, infatti, ha superato la forza comica dell’immaginazione.
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Oggi, del resto, diventa persino difficile immaginare che qualcuno di nome William Shakespeare più di quattro secoli fa abbia potuto evocare nei suoi Sonetti, inseguendo a sua volta un fantasma platonico di venti secoli prima, un’esperienza dell’amore capace di cancellare le frontiere tra uomo e donna: a woman’s face with nature’s own hand painted / Hast thou, the master mistress of my passion. Quelle frontiere che oggi agli occhi e alle orecchie degli studiosi dei gender studies, appaiono così invalicabili… Quell’esperienza si fondava su una nozione della bellezza (beauty) fisica, mentale, drammatica, ironica, estetica ed etica, in guerra con il tempo e in pace con la perfezione (When i consider every thing that grows / Holds in perfection but a little moment), in grado di creare un atollo emotivo al di là di ogni genere: una bellezza «ultrasessuale» (Claudio Guillén) che metteva alla prova lettori e lettrici e offriva loro, per dirla con Borges, una spada, uno specchio e un labirinto.
Oggi lettori e lettrici sono stati sostituiti da schiere di procuratori militanti occupati a rivendicare l’eccezionalità del loro sesso, come se questo potesse difenderli dalla misoginia e dall’omofobia, come se ciò potesse essere una prova della loro libertà, allorché esprime solo la loro impotenza ad aprire una breccia nel silenzio del passato: la loro mancanza di immaginazione temporale.
What is your substance, whereof are you made,
that millions of strange shadows on you tend?
Qual è la sostanza di un individuo? Fino a che punto l’ombra dell’essere amato, uomo o donna che sia, può essere colta?
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Sono le stesse domande che l’immaginazione di Francis Bacon ci pone attraverso la deformazione organica – una deformazione tragica e non comica come quella di Rabelais – dei suoi corpi. Non è un caso che l’artista, nei suoi dialoghi, dove non c’è traccia né tanto meno rivendicazione delle sue preferenze sessuali, si richiami, quando parla della bellezza, quasi unicamente a Shakespeare.
Bacon, per quanto si sia sentito isolato, non ha mai pensato di giudicare la sua arte come qualcosa di autonomo rispetto all’intera storia della sua arte. Così come la sua nozione di bellezza evoca quella di Shakespeare, allo stesso modo per lui l’arte moderna non può esimersi dal confronto con tutta l’arte precedente. Non che abbia rinunciato a essere un uomo del suo tempo, ad accogliere gli insegnamenti di altre arti, della fotografia, del cinema, a interessarsi della scienza, ad apprendere da quello che gli succedeva intorno.
Solo che Bacon, morto nel 1992, non ha semplicemente dato ascolto all’annuncio del Grande Onanista che a un certo punto della Storia ha decretato la Grande Equazione, tutto è uguale a tutto, privando così l’artista del suo vero rovello: cercare una personale gerarchia nel caos degli oggetti e dei temi del mondo. Non si è piegato al ricatto che ha reso l’arte puro décor, uno spazio arbitrario – non ludico, non artificiale, ma arbitrario –, dove non è più in gioco la vulnerabilità della condizione umana. Né ha dato ascolto alla logorroica ostentazione degli apparitnik della critica nel presentarci questo ricatto come un dato acquisito, irreversibile, epocale.
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Impegnati come siamo in quella competizione che consiste nel progressivo rafforzamento dei nostri bassi istinti, abbiamo dimenticato paradossalmente l’importanza che nell’arte ha l’istinto, parola che torna spesso nei dialoghi di Francis Bacon che, come il suo maestro Shakespeare, sapeva bene che non si dà bellezza senza essersi mescolati ai propri umori, senza aver compreso l’essenziale e cruda organicità della vita:
A diciassette anni. Lo ricordo molto chiaramente. Vidi uno stronzo di cane sul marciapiede e d’un tratto capii: ecco cos’è la vita. Mi tormentai per mesi, poi finii per accettarlo.
Solo che l’istinto di Francis Bacon, accettato il fondo escrementizio di ogni bellezza, restò fino alla fine, a differenza di quello di tutti noi, sopravvissuti alla Grande Equazione del Grande Onanista, della stessa sostanza dei suoi sogni.