di Massimo Rizzante
Massimo Rizzante
Comincerei dalla tua ultima fatica, Compagni segreti. Storie di viaggi, bombe e scrittori (2006). Questo libro – anche se ha una parte critica dedicata agli scrittori che formano il tuo «museo immaginario» – assomiglia alle tue opere precedenti (spesso alla frontiera tra finzione e documento): anche qui sei presente come autore e allo stesso tempo come personaggio. Da una parte, infatti, scrivi su opere altrui, dall’altra non rinunci a essere quel viaggiatore intento ad «agire», a toccare con mano luoghi e misfatti della storia del XX secolo. Partirei perciò dalla memoria del secolo dei «totalitarismi», specificando che chi investiga e ricorda, come più volte hai scritto, non ha direttamente vissuto le esperienze fondamentali di cui narra e che in ragione di ciò si sente un «reduce» (l’ethos del «reduce», al contrario di quello del «malinconico» che viaggia cercando di smarrirsi nel paesaggio e nella Storia, è contraddistinto dall’entusiasmo di chi, sperimentato il limite, comprende il valore del ritorno a casa, il valore del ricominciare ogni volta dai propri limiti). Non è un caso, quindi, se all’inizio di Compagni segreti, troviamo il reduce-viaggiatore in Giappone, a Hiroshima…
Eraldo Affinati
Compagni segreti è effettivamente un libro di viaggi in cui racconto i miei reportage da alcuni luoghi resi tristemente noti dagli eventi della seconda guerra mondiale: Hiroshima, Nagasaki, Stalingrado, Cassino, Berlino sono alcuni dei luoghi che ho esplorato, pur non essendo uno storico di professione. C’è un elemento «familiare» in questi miei spostamenti. Mio nonno era un partigiano. Fu fucilato dai nazisti nel 1944. Mia madre fu arrestata, nella tragica estate del 1944 e riuscì a fuggire da un treno che probabilmente l’avrebbe condotta in Germania. La mia scrittura perciò è una sorta di risposta a una malattia profonda del XX secolo. È come se volessi continuamente ricucire la ferita che ho sentito in me dal momento in cui ho capito che se lei non fosse riuscita a fuggire da quel treno io non sarei nato. La mia è in questo senso un’opera di ricomposizione. Questo elemento mi ha portato nel corso degli anni a visitare tanti luoghi del Novecento, primo fra tutti Auschwitz, da cui è nato il mio libro Campo del sangue (1997). Poi sono andato sulle tracce di uno dei più grandi teologi del secolo scorso, Dietrich Bonhoeffer, e ho scritto un libro su di lui (Un teologo contro Hitler, 2002). Compagni segreti è molto legato a queste mie esperienze. Che cosa volevo capire andando a Hiroshima? Volevo soprattutto parlare con i ragazzi di quella città. Mi interessava capire che cosa significhi vivere in una città di plastica, una città che ha l’età di un uomo: sessant’anni! Hiroshima e Nagasaki sono città ricostruite da cima a fondo perché, come Cassino, sono state completamente distrutte. Volevo capire cosa significa per un ragazzo di sedici o diciassette anni vivere in una città senza passato. Pensavo che se fossi riuscito a comprendere la letizia dei ragazzi di Hiroshima, avrei compreso anche le ragioni della letteratura. Per me le «ragioni della letteratura» sono illuminate dalle «ragioni del ritorno» (e viceversa). Dobbiamo comprendere chi sono i nostri genitori, non solo quelli biologici, ma soprattutto quelli storici. Chi sono i nostri padri? Quali sono le nostre vere radici? La memoria – l’ho detto tante volte – è una certificazione di identità. Pongo il timbro di conferma su quello che penso di essere soltanto nel momento in cui vado a visitare quei luoghi, vado a scoprire quelle ferite a cielo aperto del Novecento. Quando mi metto in viaggio so già tutto – ci vado, cioè, dopo aver letto dei libri, dopo essermi documentato. Non voglio scoprire cose nuove. Voglio porre il timbro di conferma su quello che ho creduto di sapere. Infatti, non mi fido del tutto della conoscenza intellettuale. Vorrei sempre essere in grado di rafforzare la conoscenza teorica che ho delle cose con un’azione personale.
M. R.
E sul titolo, Compagni segreti, hai qualcosa da dirci?
E. A.
Compagni segreti è un titolo conradiano, tratto dal celebre racconto Il coinquilino segreto dei Racconti di mare e di costa. I miei compagni segreti sono gli scrittori che mi hanno idealmente guidato in questi viaggi. Accanto ai racconti di viaggio ci sono molti testi letterari che ho raccolto nel corso degli ultimi anni. È come se avessi voluto creare una «famiglia estetica». Sono tutti scrittori contemporanei: Philip Roth, Don De Lillo, Ian McEwan, ma anche giovani promesse come Jonathan Raban e Rubén Gallego, nei quali sento una vera forza letteraria. Considero questo mio libro come un mio piccolo «canone» della letteratura contemporanea.
M. R.
A proposito di «famiglia estetica», mi sembra di poter affermare che fin da Veglia d’armi (1992) hai sempre fatto riferimento a Tolstoj. Anzi, mi pare che la tua «famiglia estetica» abbia sempre avuto due rami genealogici, quello russo e quello americano, a volte strettamente annodati fra di loro. Mi sbaglio?
E. A.
Tra la letteratura americana e quella russa c’è un nesso profondo, che sempre, fin da ragazzo, ho sentito mio. Se ci pensiamo bene la short story è già presente nei Racconti di Belkin di Puskin. È come se molti scrittori americani del XX secolo avessero realizzato ciò che i grandi scrittori russi dell’Ottocento avevano prefigurato: una presa sulla realtà. Non una scrittura che nasce dalla sperimentazione di tipo stilistico, ma da un’esperienza profonda, che va concepita a mio avviso come l’ultima stazione di un lungo viaggio di conoscenza. Per me la scrittura mette alla prova quello che noi crediamo di aver compreso dalla vita. A volte lo smentisce. Tuttavia, che lo smentisca o lo confermi, essa è un momento risolutivo in cui incappi in una crisi o in ciò che già sapevi.
M. R.
Chi riconosci fra gli scrittori contemporanei come un fratello maggiore o un maestro?
E. A.
Un autore per me molto importante è W. G. Sebald. Questo grande scrittore tedesco, morto pochi anni fa in un incidente stradale, mi ha insegnato una letteratura, fondata sul rapporto tra finzione e documento (che è alla base del vostro seminario), alla quale io credo molto. Oggi più che mai chi scrive sente la crisi del romanzo tradizionale. Perché? Perché quello che un tempo veniva assicurato dal romanzo, oggi è portato alle menti da altre fonti. Se andiamo su Internet, troviamo una deflagrazione informativa, ma non troviamo gerarchie di valori. La scrittura narrativa oggi vede erodersi le fonti primarie, quelle dell’esperienza. Chi scrive si deve porre questo problema: ritrovare le gerarchie. Deve, inoltre, cercare un’esperienza nuova, diversa. Stanno cambiando i luoghi della letteratura e stanno cambiando le forme della scrittura. Uno scrittore come W. G. Sebald può darci un esempio di come la scrittura debba rinnovarsi, debba cercare di misurarsi con una diversa percezione della realtà.
M. R.
W. G. Sebald è importante per il nostro Seminario Internazionale sul Romanzo. Nelle sue opere ci sono «documenti fotografici» che spesso hanno relazioni allusive con quanto si racconta, ma c’è soprattutto una catastrofe storica che tutti i personaggi hanno sperimentato o conosciuto, ma di cui non si parla. Penso a un libro come Gli emigrati composto da quattro biografie delle quali solo in maniera latente il lettore – guidato nel cammino da un pellegrino – scopre a poco a poco da che cosa sono unite. Lì, credo, ci sia una forma nuova in cui l’esperienza storica (la seconda guerra mondiale, l’Olocausto, l’oblio colpevole della Germania) è sempre all’opera, ma per scorci, per dettagli, per messe a fuoco improvvise (il pellegrino-viaggiatore di Sebald è un po’ fotografo e un po’ archivista). C’è, tuttavia, un altro punto a te molto caro, quello dell’educazione. Nel tuo caso direi che lo scrittore e l’educatore coincidono. L’insegnamento della letteratura all’epoca della «deflagrazione informatica» è ancora possibile?
E. A.
Io insegno in una realtà molto speciale: la «Città dei ragazzi». Si tratta di una repubblica dei ragazzi nata grazie all’intuizione di un sacerdote irlandese che nel secondo dopoguerra raccoglieva gli orfani dalle macerie e cercava di dar loro un tetto. Oggi la frequentano adolescenti stranieri che raggiungono l’Italia da tutto il mondo, dall’Afghanistan, dall’Africa nera, dal Marocco, ecc. Osservandoli, mi accorgo, di come stia cambiando la percezione del testo. La scrittura non è solo un mezzo ma – come ci hanno insegnato i grandi filosofi del XX secolo – è la casa del nostro pensiero. Noto nei giovani con cui lavoro come stia cambiando il modo di scrivere. Il loro pensiero è sempre più frammentario, con tuttavia delle possibilità nuove, più creative rispetto a quelle delle generazioni precedenti. In quanto educatore e scrittore – per me queste due cose si identificano – devo misurarmi con questo cambiamento.
M. R.
La formazione romanzesca del mondo di cui le generazioni precedenti si erano alimentate e nutrite non ha più corso. Se ho capito bene il tuo compito sia di scrittore che di educatore è precisamente quello di metterti alla prova rispetto alla nuova percezione della realtà (e dell’opera). Quando affermi che il pensiero e la parola dei tuoi adolescenti sono sempre più frammentari, ciò non sembra scoraggiarti. Anzi, intravedi nuove possibilità per loro, e per te un ulteriore balzo di responsabilità…
E. A.
Il problema è importante e difficile. Albert Camus una volta disse che lo scrittore nel XX secolo doveva scrivere in nome di chi non poteva farlo, doveva dare la parola a chi non l’aveva. Ho sentito in modo molto forte questa frase. Mia madre non era mai riuscita a raccontarmi quello che era accaduto quel giorno in cui riuscì a scappare dal treno, evitando di essere deportata in un campo di concentramento. Per raccontare la sua storia, ho dovuto trovare le parole che non era riuscita a dirmi. Credo che lo scrittore debba riflettere molto sul tema della responsabilità, non quella giuridica, rispetto alla legge, ma quella umana che deriva dallo sguardo altrui. Io mi sento responsabile appena un uomo posa il suo sguardo su di me. Si tratta di una responsabilità «pre-giuridica». È questo che mi ha insegnato la riflessione sulla Shoah. È noto che tutti i carnefici durante i processi del dopoguerra si difesero dicendo: «Ho eseguito gli ordini». Ad Auschwitz la responsabilità giuridica non fu disattesa. Ciò ci deve insegnare qualcosa sulla nozione di responsabilità. Credo che soprattutto lo scrittore debba porsi il problema di rispondere attraverso la propria scrittura a una «chiamata» della parola. L’educatore e lo scrittore invitano alla medesima responsabilità nei confronti della parola. È una questione importante. Scrivere, per me, significa anche avere una certa condotta di vita. Nel XX secolo gli scrittori si sono spesso isolati e hanno lasciato campo libero all’uomo d’azione. Il nazista, ad esempio, era un uomo d’azione orfano di quella nozione di responsabilità che avrebbe dovuto illuminare il suo cammino. Io sento che devo essere presente di fronte al ragazzo afgano che oggi viene in Italia con mezzi di fortuna, che è analfabeta nella sua lingua madre, ma che vuole imparare la lingua italiana. Perché lo vuole? Perché vuole ricostruire i cocci rotti della sua vita.
M. R.
Perché tu vuoi essere presente di fronte a lui quando raccoglie i cocci della sua vita?
E. A.
Perché non voglio essere assente dal luogo delle operazioni. E perché ogni mia opera, come dicevo, è un’opera di ricomposizione. In questo senso, io non invento mai una storia. Ritorno sulle sue ragioni.
M. R.
Ciò ci porta dall’altra parte della frontiera del rapporto tra finzione e documento. Tu affermi: «Io non sono uno scrittore d’invenzione», una posizione questa che si coniuga con la tua idea di scrittore come «uomo attivo», idea che ritorna in maniera quasi ossessiva in tutti i tuoi libri. Grazie ad essa, interpreti la figura dell’intellettuale moderno: l’intellettuale, l’artista, lo scrittore del XX secolo, secondo te, non avendo mai incarnato in sé anche l’uomo d’azione, ha di fatto sciolto ogni regime etico, permettendo al «soldato» di agire, di commettere le più atroci follie. Da ciò si intuisce il tuo ideale di scrittore come soldato, reduce da guerre non vissute ma di cui ci si deve fare carico, e allo stesso tempo viaggiatore. In Campo del sangue c’è un passaggio in cui tu scrivi: «Non bisognerebbe mai separare il pensiero dall’azione. Questa tentata spaccatura è il tarlo dell’epoca moderna: il mondo senza testa e la testa senza mondo. Affermando il primato della coscienza sulla realtà, l’artista novecentesco ha di fatto dato campo libero all’uomo d’azione». Tuttavia, mi sembra di poter dire che nel corso del Novecento, ci sono stati molti casi sia in Italia che in Europa di intellettuali, scrittori e filosofi che hanno talmente idealizzato, romanticizzato l’idea di azione da trasformarsi in paladini dei regimi totalitari. Penso a Marinetti, a D’Annunzio, a Gentile durante l’epoca fascista, a Gorki durante l’epoca staliniana, alle infatuazioni di Heidegger verso il nazionalsocialismo, all’energica cecità di molti surrealisti francesi di fronte all’occupazione sovietica di Praga, al maoismo di Sartre durante l’euforica stagione rivoluzionaria del ’68…
E. A.
È importante fare una distinzione. Non dobbiamo pensare al vitalismo estetizzante. L’azione non è quella dannunziana, quella dello scrittore che si inebria, si ubriaca di se stesso. Quello è il peggior vitalismo del Novecento. Un vitalismo cieco, selvaggio, che non è più lucido, che erge la propria emozione a feticcio. Dobbiamo invece pensare a un impegno nella realtà quotidiana, nel lavoro. Non quindi l’azione in senso categoriale, ma, potremmo dire, lo «sporcarsi le mani» nell’attività quotidiana, il mettersi in gioco. Il non voler conservare sempre una coscienza pulita, immacolata, solo per non sbagliare. L’immagine che tu hai ricordato ci ripropone quell’errore: lo scendere in campo in modo precostituito. Io invece pensavo – tenendo ferme le sensibilità, le vocazioni di ognuno, tenendo lontano il pericolo delle ideologie che hanno disonorato il XX secolo – a un impegno quotidiano, all’essere utile agli uomini. Questo me lo ha insegnato Bonhoeffer. Volevo, infatti, ritornare a questo grande autore per ricordare non tanto uno dei suoi grandi gesti eroici, come quando, nel 1939, è ritornato in Germania invece di restare negli Stati Uniti e salvarsi la vita. Volevo ricordarlo non nelle grandi scelte che lo hanno portato sul patibolo di Flossemburg, quando fu fatto impiccare da Hitler pochi giorni prima che la Seconda guerra mondiale finisse, ma nella sua attività quotidiana, nella quale questo grande teologo andava ad insegnare ai figli degli operai di Berlino.
M. R.
La possibilità che l’idea di «azione» possa trasformarsi in feticismo dell’azione è esistita, esiste ed esisterà: è una possibilità dell’uomo. Non è naturalmente il tuo caso. Forse la tua idea di «azione» confina con quella di «missione». Riporto qui un brano di Resistenza e resa di Bonhoeffer che, credo, esemplifichi bene il tuo pensiero: «Abbiamo imparato troppo tardi che l’origine dell’azione non è il pensiero, ma la disponibilità alla responsabilità. Per noi pensare e agire entreranno in un nuovo rapporto. Voi penserete solo ciò di cui dovrete assumervi la responsabilità agendo. Per noi il pensiero era molte volte il lusso dello spettatore, per voi sarà completamente al servizio del fare».
E. A.
È proprio l’esempio di ciò che stavo dicendo prima. La citazione è perfetta. Bonhoeffer con quella frase ci fa comprendere che il pensiero non può essere gratuito, scorporato, sganciato dalla realtà. Se noi sbagliamo, dobbiamo pagare: l’artista non è libero. Nel caso in cui sbagli, l’artista deve pagare il prezzo del risarcimento come qualunque altra persona. L’azione vera è quella che scaturisce da un’assunzione di responsabilità, quando mi sento chiamato a rispondere di fronte a un’ingiustizia, ad esempio. Agire significa essere responsabili dei contesti nei quali viviamo, qualcosa che va oltre la «missione».
M. R.
Un avvocato del diavolo potrebbe ribatterti: così, caro Eraldo, tagli alle radici gran parte dell’arte del XX secolo. Tu affermi che ogni gesto, ogni atto deve essere responsabile, tanto che non potremmo scrivere se non entro i limiti circoscritti dall’azione che siamo in grado di produrre. Eppure, in Francia, in un romanzo dei primi del Novecento, l’impossibilità di veder rispecchiata la propria volontà produsse Lafcadio e il suo «atto gratuito»…
E. A.
Ognuno è figlio del proprio tempo. Direi che bisogna prendere posizione – ognuno di noi è chiamato a farlo – rispetto alle culture da cui proveniamo. Guai se non lo facessimo. Oggi, purtroppo, il pensiero critico sembra essere stato sostituito dalla filosofia del centro commerciale. Il pensiero critico sembra pericoloso. “Pensare è cominciare a essere minati” diceva Albert Camus (che naturalmente preferisco ad André Gide). Pensare è pericoloso. È chiaro che tu metti in discussione le tue stesse basi. Dobbiamo però tener presente che io sto qui di fronte a voi a esporre una poetica. Non sto esponendo una regola, una teoria precettistica. Sto dichiarando il mio carattere, la mia sensibilità, cercando in qualche modo di spiegare le ragioni che mi spingono a scrivere. Se io come lettore trovo certe «intensità» in un testo che magari parte da posizioni contrarie a quelle che ho esposto, io lo accolgo nella mia «famiglia estetica», come dici tu, non lo respingo. La letteratura deve intensificare l’esistenza. Non è polvere per le biblioteche, ma qualcosa che rende la vita più ricca, più degna di essere vissuta, non la indebolisce. Sono sempre pronto a leggere un testo contro di me. La grande letteratura insegna a pensare contro se stessi: è sempre un mettersi alla prova.
M. R.
«La grande letteratura insegna a pensare contro se stessi», questa è dunque la tua regola d’oro. Ricordo, infatti, in Campo del sangue alcuni passi su Flaubert e soprattutto su Kafka quantomeno controcorrente… Nel presente non solo italiano della letteratura vedo fondamentalmente due grandi linee: una, che comprende quegli scrittori che vanno verso l’irrealtà, il romanzesco, l’invenzione pura; l’altra che diffida dell’immaginazione, del romanzesco e si fa sempre più documentaria, se non giornalistica. La tua è una strada diversa. Dove la porresti, tra questi due estremi?
E. A.
Faccio i nomi di due grandi scrittori italiani, per capirci meglio. Pensiamo a Calvino e a Fenoglio. È chiaro che Calvino corrisponde a un’idea di letteratura lontana da quella che io ora ho delineato, Fenoglio mi appartiene di più. Calvino è uno scrittore di grande concatenazione fantastica. Scrittore capace di inventare mondi nuovi attraverso operazioni logiche e immaginative. Fenoglio è uno scrittore che si misura sulla sua pelle e che riesce a far sentire universale ciò che è personale. Non avrei dubbi nello scegliere Fenoglio.
Oggi le cose sono cambiate. Queste due poetiche non avrebbero più ragione d’essere. Siamo di fronte a una crisi della letteratura. Mi spiego. La letteratura è sempre stata minoritaria. Pensiamo soltanto ai destini dei nostri grandissimi scrittori. Foscolo è morto a Londra, accudito soltanto dalla figlia che aveva ritrovato dopo tanti anni. Leopardi è morto come un barbone, a Napoli, dove era stato condotto dall’amico Ranieri. Era costretto a elemosinare soldi dal padre. Due degli scrittori più elevati della coscienza europea sono morti così. Questo ci deve fare riflettere. Nulla, o quasi, è in questo senso cambiato. Ma qualcosa sì. Il fatto che noi oggi sopportiamo a fatica il destino minoritario della letteratura. Un tempo lo accettavamo di più. Per quale ragione? Perché ora siamo di fronte alla rivoluzione informatica, per cui sembra quasi che quello che non è illuminato dalla luce dei riflettori non esista. Ciò che non è certificato dai mass media non ha ragion d’essere. Ciò apre una prospettiva nuova. Il destino minoritario della letteratura sembra ancora più significativo di quello che è stato un tempo. Le gerarchie sono sommerse, non emergono più. Ricordo quel testo famoso di Sklovskij, Il punteggio di Amburgo, in cui l’autore diceva che i grandi scrittori non sono quelli di cui si parla quotidianamente. I grandi scrittori se la battono in una cantina di Amburgo, dove si affrontano come pugili. La grande letteratura c’è anche oggi, ma non emerge. In Compagni segreti ho anche voluto far vedere quali sono gli scrittori di oggi. Alcuni coincidono con i nomi di cui parlano i grandi giornali, altri sono sconosciuti. Siamo di fronte a un tempo nuovo, un tempo in cui la scrittura e il romanzo sono messi alla prova. Il romanzo, in particolare, è attaccato, sembra quasi dover dimostrare una vitalità che intorno gli viene contestata. È chiaro che non ho ricette per il superamento di questo stato, che la crisi della narrativa contemporanea ci sia, però, mi sembra innegabile.
M. R.
Quando tu parli di «concatenazione fantastica», o come mi piace chiamarla da un po’ di tempo, di «fantasticazione», è necessario tener conto che la sua nozione, come esattamente un anno fa affermava Gianni Celati in questa stessa sala, è cambiata rispetto all’epoca in cui Calvino scriveva le sue opere. Il nocciolo della nostra questione è forse proprio qui: quel tipo di immaginazione che serviva a esplorare la realtà non è morta, ma è sempre più «minoritari», sostituita da un’altro tipo di immaginazione: una sorta di evasione dalla realtà. Come contraltare, quasi che l’uomo non potesse sopportare una dose troppo massiccia di irrealtà, assistiamo a un’invasione sistematica dei fatti, per cui il romanzo si trasforma spesso in una sorta di messa in scena dell’attualità.
Credo che tu, nelle tue opere, abbia trovato una via mediana in cui ti metti in gioco non solo come autore, ma anche come portavoce della tua missione educativa. I tuoi libri così vivono sempre alla frontiera tra l’esplorazione immaginativa della realtà e ricostruzione storica dei fatti.
A proposito, oggi, come ti rivolgi ai tuoi studenti?
E. A.
Penso ad Alì, un ragazzo afghano che ha raggiunto l’Italia in un tir. È arrivato da Patrasso ed è sceso soltanto a Treviso, molto vicino alla terra di Mario Rigoni Stern. Quando parlai con lui di Alì, egli rimase molto colpito nel constatare che il suo ritorno dalla Russia a piedi durante la Seconda guerra mondiale era stato del tutto simile a quello che Alì, il mio allievo, aveva intrapreso pochi anni fa. Tutti i miei ragazzi sono dentro questo libro. Ma vorrei dire qualcosa anche sul mio prossimo libro.
Quest’estate sono stato in Marocco con due miei allievi. Ora hanno diciotto anni. Quando arrivarono in Italia ne avevano quattordici e non erano mai ritornati nel loro paese. Li ho accompagnati perché desideravano tornare. Potete immaginare l’effetto violentissimo che è stato per me vedere come, partiti bambini, essi siano tornati, da adulti, a incontrare le loro famiglie di appartenenza. In pochi anni sono diventati come i nostri figli, con l’ipod e i jeans a vita bassa. Hanno subito profondamente il fascino moderno. Quando sono tornati in Marocco erano più italiani di me, arcitaliani. Non volevano più accettare le loro origini. Naturalmente, non potevano non abbracciare il padre, la madre, i fratelli. È stato un incontro potentissimo: stare lì con loro, vivere quei giorni nel deserto… Io ero il loro professore, ma erano loro a essere diventati per me delle guide. Traducevano dall’arabo in italiano per me, mi facevano vivere la vita di tutti i giorni… Allora ho capito che ero diventato utile, che li avevo fatti crescere, che li avevo aiutati a diventare grandi. Adesso sono tornati in Italia, lavorano, hanno trovato una loro collocazione. È un esempio positivo, uno di quelli di cui non si parla mai sui giornali. Un esempio di come alcuni ragazzi stranieri sono riusciti, nella mia lingua, a ritrovare la loro identità. Capisci che per me, come scrittore, questo ha una doppia valenza. Sono un insegnante che ha visto quei ragazzi ricostruire il loro mosaico frantumato nella mia lingua. È come se, attraverso di loro, avessi ritrovato il corpo della lingua italiana. Questa esperienza per me deve per forza essere misurata nella scrittura. Ecco da dove viene quella che un tempo avremmo definito la mia sorgente ispirativa.
M. R.
Mi sembra di capire che la nozione di «esperienza», nel senso più elementare di uscire di casa per sperimentare i limiti dello spazio e del tempo che occupiamo in quanto esseri individuali per te sia molto importante…
E. A.
L’esperienza per me è determinante, è la scintilla della scrittura. Ho scritto il mio ultimo libro, che uscirà nel 2008, perché il momento della scrittura è un momento di laboratorio, di prova, di fatica, di artigianato. Ecco una cosa a cui tengo molto: la scrittura non può essere strumentale, non deve esserlo. Ho voluto riportare l’esempio del mio viaggio in Marocco per farvi capire il percorso che mi porta alla scrittura.
Un altro esempio. Quattro anni fa, prima che Putin ponesse la moratoria sulla pena di morte, un condannato a morte aveva chiesto di essere ucciso. È il paese di Dostoevskij. L’omicida aveva chiesto che la sua pena fosse eseguita. Io sono voluto andare a conoscere chi fosse questa persona e quali fossero le sue ragioni. In un reportage racconto il mio viaggio di avvicinamento al carcere, un penitenziario di massima sicurezza situato a mille chilometri a nord di Mosca. Ritengo questo viaggio uno dei miei viaggi più importanti. C’era molta tensione in me, molta ansia. Ho raggiunto prima Volodka, in treno, a nord di Mosca. Poi, in automobile. Arrivato al penitenziario si trattava di scendere nella ronda dei prigionieri, come nel quadro di Van Gogh. Vedevo questi uomini isolati, ognuno in una cella. Chiedevano udienza, un’ultima udienza. Ho avuto l’impressione di dare l’ultima parola a Ravil, così si chiamava il condannato. Sono stato con lui. Sono entrato nella sua cella. Ricordo che i carcerieri gli avevano messo le catene ai polsi. Ho chiesto che gli fossero tolte. Parlandogli (eravamo io, lui e l’interprete), ho misurato la distanza tra le notizie che leggiamo sui giornali e il volto di quest’uomo che mi guardava e chiedeva di essere ucciso. Se ne era parlato nella stampa mondiale. Ne aveva parlato Amnesty International, se ne era parlato in Russia, ma ho avuto l’impressione che nessuno potesse riuscire a restituirci il volto di quell’uomo. Ecco, questo è lo scarto, questa è la frontiera tra l’informazione codificata, che abbiamo dai giornali e dalla televisione, e quello che si potrebbe fare se noi andassimo dentro la realtà. Questa non è esperienza virtuale, che vediamo attraverso lo schermo. Non è informazione teorica, è qualcosa che senti e che è molto più forte di quello che tu sai teoricamente. In quel momento ho sentito la stessa sensazione che avevo sentito ad Auschwitz di fronte al Muro della morte, quando mi chiesi la ragione per cui ero lì. Cercavo una risposta ed ho trovato una domanda. Tuttavia ho capito che la vera risposta è in questa domanda. Chi non trova la domanda non potrà mai trovare la risposta. Perché è successo quello che è successo? Chi va in questi luoghi estremi comprende che solo il desiderio di conoscenza è la vera risposta, ed è il motivo per cui uno scrive. La ragione della scrittura è quella di trovare un senso a ciò che sembra esserne privo.
M. R.
Mi sono segnato un passo di Veglia d’armi che mi ha colpito: «Pochissimi riescono nell’intento di capire veramente chi sono e quasi nessuno si dimostra capace nella difesa a oltranza del proprio carattere». Riconoscere il proprio carattere distintivo; attenervisi. Sono questi i primi due comandamenti dello scrittore?
E. A.
Ho scritto queste parole qualche anno fa. Si tratta del mio primo libro. Oggi sarei più flessibile. Ho capito, nel mio lavoro di insegnante, che la cosa più importante che posso fare è trasmettere ai miei allievi la passione a scoprire e a prendere coscienza del proprio nucleo distintivo, in modo che possano diventare grandi. Per tutti è difficile. Nella mia frase che hai citato c’è un rischio: il rischio della giovinezza, un eccesso di radicalità. Non la rinnego, ma la scriverei in un altro modo: ognuno deve misurarsi con se stesso, ma deve essere pronto anche a pensare contro se stesso. Essere pronto anche a lasciarsi trafiggere dal punto di vista altrui. Essere pronto a rimettersi in discussione. Essere pronti a ricominciare. Mettersi alla prova, perché quel nucleo distintivo non è acquisito una volta per tutte, ma deve essere costantemente speso nella vita quotidiana. Non dobbiamo essere fedeli sempre e comunque a noi stessi.
M. R.
Tuttavia essere fedeli a se stessi, ai propri ricordi è un altro modo di essere fedeli alle persone, ai libri, agli autori che ci hanno formato…
E. A.
Ho dedicato Veglia d’armi all’opera di Tolstoj. È stato uno dei miei punti di riferimento, quando avevo vent’anni. Guerra e pace, soprattutto. Se penso a Pierre Bezuchov o ad Andrej Bolkonskij, i due protagonisti di questo grandioso romanzo, è come se pensassi ai due modelli che avevo da ragazzo e con i quali mi sono misurato per molti anni. Poi, ho scoperto Bonhoeffer. Resistenza e resa è stato un libro determinante. Altri scrittori per me fondamentali sono stati Hemingway, Fenoglio, il Verga dei Malavoglia. Oltre a loro dovrei dire qualcosa sulle esperienze che ho fatto, sulla vita che ho vissuto. Sempre più comprendo che il mio lavoro quotidiano di insegnante si rivela decisivo. È lì che trovo il mio alimento principale. L’aspetto pedagogico – non lo sapevo, non credevo di avere questa attitudine – è diventato con il tempo un habitus. Dovrei quindi ricordare i miei allievi. E mia madre. Sento che la sua fuga alla stazione ferroviaria di Udine per sfuggire ai campi di concentramento è diventata con gli anni un episodio fondamentale della mia esistenza. Scrivendo, è come se dessi voce anche a lei.