Sakamoto: “In Africa ho scoperto il suono del silenzio”

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di Massimo Rizzante135551067-d4704d76-059b-4cae-b768-18a7d5462379

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“Con mia grande sorpresa ho scoperto che nella savana africana il suono più intenso era quello degli scarabei che mi volavano intorno. In luoghi
così silenziosi, acuendo l’udito, riesco a immaginare una musica in cui le nuvole scorrono quiete, o una in cui enormi montagne di ghiaccio avanzano lente e maestose sulla linea dell’orizzonte. In fondo non è vero che siamo così diversi dai nostri progenitori”.

Ryuichi Sakamoto parla dell’Africa e della Groenlandia, posti dove “i sensi si affinano meglio”. Il silenzio è lo yin che sta dietro allo yang della musica, dice a un certo punto uno dei più grandi compositori contemporanei, autore anche di celebri colonne sonore per registi di cinema come Nagisa, Bertolucci (con cui ha vinto un Oscar per la colonna sonora dell’Ultimo imperatore Sakamoto), Almodóvar, De Palma, Schlöndorff, o di teatro come Robert Wilson. Vive tra New York e Tokyo, alimentandosi delle tradizioni, forme, stili e ritmi musicali più diversi, da Bach alla bossa nova, dall’impressionismo francese alla musica elettronica di Alva Noto, dal folklore di Okinawa al minimalismo anglosassone…

Dal suo modo di fare musica emerge l’aspirazione a essere un artista totale, un po’ come quelli del nostro Rinascimento italiano. È così?
“La mia principale aspirazione è quella di inseguire con l’ascolto le tracce dei canti, delle parole e delle voci dei primi antenati della nostra specie, non più di cinquanta individui che si aggiravano per l’Africa. Questo mio interesse antropologico è inesauribile… Tuttavia, la mia grande ispirazione è l’arte, in particolare l’arte del XX secolo. Questa ha messo definitivamente in crisi l’idea che la percezione estetica si riduca all’osservazione di “una figura disegnata su una parete bianca””.

E la letteratura? Ci sono state delle opere che l’hanno segnata?
“Mio padre, nel dopoguerra, è stato redattore letterario in una casa editrice. La mia casa, perciò, era piena di libri. Molti scrittori la frequentavano fino alle prime luci dell’alba. Io mi addormentavo cullato da quella ninna-nanna di parole. Credo che il romanzo e la poesia, ma anche la filosofia e la sociologia abbiano avuto una grande influenza su di me, penso soprattutto ad autori come Kenzaburo Oe, Yutaka Haniya, Takaaki Yoshimoto, Baudelaire, Rimbaud, Deleuze, Foucault, Guattari, Le Clézio, Levi-Strauss.”

“Debussy è stato il mio eroe”, ha detto una volta. Lo è ancora, vista la sua arte di far convivere la musica occidentale e quella orientale?
“Espressioni musicali come il gamelan o il kecak indonesiani suonano esotiche e misteriose anche a me, che sono un musicista asiatico. Per questo non riesco nemmeno a immaginare quale forte impressione possa aver ricevuto Debussy quando le ascoltò per la prima volta. Provo un grande senso di gratitudine per il fatto che sia stato proprio Debussy ad avere quell’esperienza. Debussy non ha influenzato solo Messiaen, Boulez o Stockhausen, ma anche la musica dell’Estremo Oriente, l’opera del giapponese Takemitsu Toru, o la mia, sebbene mi senta a disagio a porre il mio nome accanto a quello di questi grandi. L’antica musica asiatica ha influenzato i musicisti francesi del XX secolo, i quali, dopo secoli, sono tornati a influenzare la musica asiatica moderna, creando un grandefull circle oltre il tempo e lo spazio”.

Oggi con Internet la musica circola liberamente. Le hai scritto che “stiamo tornando ad avere atteggiamenti tribali verso la musica”. Nel XVIII secolo l’Occidente ha inventato il diritto d’autore e solo da cento anni, in fondo, la musica è prodotta e distribuita da poche organizzazioni. Come conciliare i nuovi “atteggiamenti tribali” con queste tradizioni occidentali?
“Con la diffusione di Internet, iniziata nel 1995, ho immediatamente organizzato discussioni con avvocati e musicisti che avevano comeoggetto il diritto d’autore nell’epoca digitale. La mia conclusione è stata che, tra le due posizioni rappresentate da chi sosteneva il vecchio “copyright” e chi desiderava la sua totale messa al bando, esistono diverse sfumature e possibilità. La cosa migliore, in ogni caso, è che sia l’artista in persona a decidere quali diritti applicare e a quali brani. In seguito, sono emerse organizzazioni basate sul concetto di creative commons che sono molto vicine al mio modo di pensare. Da allora le sostengo”.

Una domanda sul suo paese. Il Giappone ha guardato a lungo alla Cina e all’Europa, quindi ha cominciato ad americanizzarsi e ha conosciuto la grande crescita economica, che si è fermata a partire dal 1991. Oggi il Giappone sembra essersi ripiegato su stesso. Non sa bene dove guardare…
“Sin dal periodo Nara (710-794) in Giappone vediamo che a periodi in cui cose nuove sono assimilate dall’esterno si alternano, come si trattasse di un moto ondoso, periodi in cui esse sono assorbite e nipponizzate. Dopo aver perso la Seconda Guerra Mondiale ci siamo impegnati ad assorbire il sapere, la tecnologia e la cultura degli Stati Uniti, la potenza che ci aveva sopraffatto. Durante la bolla economica degli anni ’80 si sentiva spesso dire: “Non abbiamo più niente da imparare dagli Stati Uniti”. Poi, nel decennio successivo, la bolla è finita e siamo entrati nei cosiddetti “venti anni perduti”. Se nella storia giapponese quest’epoca, che dura tutt’ora, corrisponda a una fase di metabolizzazione ed “originalizzazione”, o se invece rappresenti un periodo di decadenza lo capiremo solo frauna decina di anni”.

Sul suo sito ufficiale si trovano le celebri parole di Adorno: “scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”. Cosa è cambiato per un artista dopo la catastrofe di Fukushima?
“Sono tanti gli artisti che vivono e creano nella realtà che quell’enorme tragedia ci ha lasciato, consapevoli di essere nel pieno di un incidente nucleare le cui conseguenze dureranno ancora molti decenni. Ma è un problema troppo grande, ancora senza risposta. Quell’incidente non va imputato solamente a un cataclisma naturale, ma è il risultato dell’avidità di denaro e di potere, intrecciate fra loro in modo inestricabile. Per trovare la soluzione è necessario consolidare una democrazia autentica. Ma in Giappone la democrazia non è un diritto storico conquistato dal nostro popolo, bensì un’istituzione che ci è stata devoluta dagli Stati Uniti d’America durante la loro occupazione. Come ha fatto la letteratura di cui si occupava mio padre, bisogna creare qualcosa di nuovo, senza mai dimenticare la grave crisi in cui ci troviamo, e con uno sguardo lungimirante che non perda mai di vista ciò che è giusto”.

Questo articolo è uscito su La Repubblica il 9 dicembre 2013

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