Come salvarsi la pelle senza rinunciare alla poesia. Su Roberto Bolaño

di Massimo Rizzante

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Bisogna partire dal fatto che Roberto Bolaño si considerava un poeta.
Aveva pubblicato cinque invisibili plaquettes prima del 1993, prima cioè che, a quarant’anni, cominciasse la sua vera storia di romanziere.
Nel 1979 era uscita in Messico, dove l’autore cileno aveva vissuto tra la fine degli anni sessanta e gli inizi degli anni settanta, un’antologia dal titolo Muchachos desnudos bajo al arcoiris de fuego (Ragazzi nudi sotto un arcobaleno di fuoco) nella quale aveva riunito un gruppo di giovani poeti d’avanguardia dell’America Latina. L’avanguardia in questione era l’«infrarealismo» o «realvisceralismo», una sorta di “Dada alla messicana” le cui radici s’inabissavano in Francia.
Sembra che Soupault avesse dato vita a un’eresia parallela al Surrealismo. In Messico l’eresia soupaultiana era stata adottata da un pugno di guerrilleros della parola che, armati unicamente della loro sana disperazione, seminavano il panico nei simposi letterari della capitale.

Ancora verso la fine della sua vita, Bolaño affermava: «Sono fondamentalmente un poeta. Ho iniziato come poeta. Da sempre ho creduto – e continuo a farlo – che scrivere prosa sia un atto di cattivo gusto».
Gli amici riferiscono che si sia deciso a scrivere con regolarità racconti e romanzi verso il 1990, dopo la nascita del suo primogenito. La poesia è importante, ma ancor più importante è sopravvivere. C’era la necessità di provvedere ai bisogni di una famiglia. Sopravvivere grazie alla prosa è probabilmente un esercizio meno acrobatico del triplice salto mortale senza rete rappresentato dall’invisibile pubblicazione di plaquettes di poesia, tanto più se quell’esercizio salvifico dipende dal trapezio offerto dai premi letterari delle province di Spagna.

C’è un racconto, Sensini, presente nella raccolta intitolata Chiamate telefoniche (1997), in cui un vecchio scrittore argentino spiega a un giovane scrittore, anch’egli emigrato in Spagna da un paese dell’America Latina, «la strategia generale» per partecipare a un numero sempre maggiore di premi. In una lettera che gli invia da Madrid, insiste sulla «misura precauzionale» di spedire alle diverse municipalità lo stesso racconto, ma avendo ogni volta l’accortezza di cambiarne il titolo. Certo, aggiunge, esiste la possibilità di imbattersi in uno stesso membro di giuria che, in molti casi, è anch’egli uno scrittore candidato ai numerosi premi letterari di provincia. Questo è il rischio, d’altra parte, che «un cacciatore di scalpi» lontano dalla sua riserva deve correre. Un rischio calcolato. Quale critico, infatti – afferma ancora il vecchio scrittore – potrebbe negare che due racconti dal titolo differente non siano differenti proprio a causa della singolarità del loro titolo?
La situazione del giovane «pellerossa» alle prese con il Far West della letteratura – «Il mondo della letteratura è terribile, e ridicolo», ripete il maestro al suo allievo – è assai simile a quella in cui lo scrittore Roberto Bolaño, nato nel 1953 a Santiago del Cile, si dibatte ormai dal 1977, anno in cui, giunto in Catalogna, si stabilisce prima a Barcellona, poi, dal 1981, a Blanes, una stazione balneare della Costa Brava.

Gli assegni dei premi letterari delle province spagnole, tuttavia, non bastano a far sopravvivere un giovane emigrato senza protezioni sociali e per di più mal disposto a compromettersi con le mafie letterarie. Bisogna adattarsi perciò, secondo le stagioni, a qualsiasi lavoro: cameriere, idraulico, guardiano notturno di camping, portuale, vendemmiatore, rivenditore di articoli per turisti.
Il cameriere, il guardiano notturno, il giocattolaio di Blanes, ovvero l’uomo che conosce a menadito la precarietà della vita, non è poi così diverso dall’adolescente che nel 1968 ha lasciato il suo paese per trasferirsi in Messico.

A Città del Messico, «un vasto territorio inesistente dove la libertà e la metamorfosi costituivano lo spettacolo di tutti i giorni», Bolaño, in compagnia dell’amico e poeta Mario Santiago, vive all’insegna di tutte le avanguardie d’Europa e d’America la sua rivoluzione artistica.
L’uomo di Blanes non può nemmeno dimenticare il giovane di vent’anni che nel 1973, spinto da un istinto tanto violento quanto romantico, fa ritorno in patria. Vi resterà cinque mesi. Il tempo di assistere alla caduta di Allende e alla presa di potere di Pinochet, che viene rinchiuso in carcere. Sarà liberato dopo otto giorni, grazie all’aiuto di un secondino, suo ex compagno di studi: «L’esperienza dell’amore, dello humour nero, dell’amicizia, della prigione e del pericolo della morte si condensarono in meno di cinque interminabili mesi durante i quali in modo estremamente rapido e in uno stato di abbagliamento ho vissuto tutto».

A trentun’anni, nel 1984, in collaborazione con l’amico Antoni G. Porta, compirà i primi passi nel mondo della prosa pubblicando un’opera dal titolo Consejos de un discípulo de Morrison a un fanatico de Joyce (dal titolo di una poesia scritta dal suo amico – nel frattempo scomparso – Mario Santiago, Consejos de un discípulo de Marx a un fanatico de Heidegger). Già in quest’opera, come nei romanzi a venire, egli non farà altro che riprodurre sulla pagina quella violenta condensazione dell’esperienza, quella rapidità d’azione narrativa priva d’ogni dettaglio superfluo, quella visione lucida del mondo – colma d’amore, sesso e humour – vissuta durante i «cinque interminabili mesi» trascorsi in Cile nel 1973.

La tonalità della prosa di Bolaño: quella di un poeta in pericolo di vita che osserva, in uno stato di «abbagliamento» e con un sorriso sulle labbra, tutta la fragilità dell’essere umano impressa sul volto del suo miglior amico.
Un uomo, quello di Blanes, inoltre, che rivendica «la miseria e la superiorità» dell’autentica pratica letteraria rispetto a ogni genere di consorteria. Nella prefazione a Amberes (Anversa), un’opera del 1980 ma pubblicata nel 2002, l’autore ricorda il suo primo periodo in Catalogna, e confessa: «Il disprezzo che provavo per la cosiddetta letteratura ufficiale era enorme, benché soltanto un po’ meno grande di quello che provavo per la letteratura marginale. Ma credevo nella letteratura, ovvero non credevo né nell’arrivismo né nell’opportunismo né nei pettegolezzi dei cortigiani. Credevo nei gesti inutili, nel destino. Non avevo ancora avuto figli. Leggevo più poesia che prosa».

Il suo atteggiamento da «cane romantico», da orfano senza complessi edipici, senza casa, in esilio – «L’esilio è il valore, il coraggio. Il vero esilio è il vero valore, il vero coraggio di ogni scrittore» –, esposto continuamente «alle intemperie», capace di incarnare tutto l’orgoglio e la disgrazia d’essere poeta, non cambierà più. Si sposerà; avrà due figli, Lautario – «La patria è mio figlio e la mia biblioteca» – e Alexandra; pubblicherà tra il 1993 e il 2003, anno della sua morte, undici opere; leggerà sempre più prosa (sebbene non abbandonerà mai del tutto la lettura della poesia antica e moderna); scriverà articoli per giornali spagnoli e latinoamericani in cui analizzerà opere di romanzieri e poeti del passato e del futuro; il suo romanzo I detective selvaggi (1998) riceverà premi prestigiosi (l’Herralde, il Rómulo Gallegos); diventerà il faro, o addirittura il totem, della nuova generazione di scrittori latinoamericani (Alan Pauls, Rodrigo Fresán, Jorge Volpi, Ignacio Padilla, Edmundo Paz Soldán, Santiago Gamboa, Juan Villoro, Rodrigo Rey Rosa, Ibsen Martinez, Fernando Vallejo, Antonio Ungar, Gonzales Contreras, Pedro Lemebel, Jayme Collyer). Ciò nonostante, poco prima di morire, mentre è assorbito dalla redazione di 2666, il suo ultimo romanzo – un’impresa colossale di più di mille pagine, uscito postumo nel 2004 – scrive un attacco che è degno di un’irruzione di un gruppo di giovani «realvisceralisti» in un gabinetto medico nel momento stesso in cui un collegio di anatomopatologi sta constatando la morte del paziente.

Fedele al suo ideale di poeta che ha a cuore più «le frontiere dorate dell’etica» che la propria reputazione, si lancia contro la letteratura del presente, composta nella maggior parte dei casi da rappresentanti della classe media di trenta e quarant’anni che, invece di restare «alle intemperie», preferiscono salire la scala della rispettabilità: «Non respingono la rispettabilità, la cercano disperatamente». Aspirano a vendere. Desiderano essere presenti alle fiere del libro. Desiderano «sorridere e, soprattutto, non mordere la mano di chi offre loro da mangiare». Desiderano andare alla televisione e «fare i pagliacci nelle trasmissioni di gossip».
Dove sono la ribellione – si chiede – il feroce risentimento, il gesto gratuito, il piacere disinteressato, il senso sottile e metafisico della fine del mondo, il riso, il rischio dell’intelligenza e dei sensi? Dove sono andate a finire queste qualità che dovrebbero appartenere al poeta, al romanziere, all’artista? «Che cosa possono fare – scrive Bolaño in I miti di Chtulhu – Sergio Pitol, Fernando Vallejo e Ricardo Piglia contro la valanga di glamour? Ben poco. Letteratura».

Che cosa possiamo fare noi in un mondo che pensa che «il romanzo d’appendice è la salvezza del lettore (ed en passantdell’industria culturale)»? Che cosa possono fare Proust, Joyce? E Macedonio Fernández, Juan Carlos Onetti, Roberto Arlt? Che cosa ci resta della gioiosa erudizione dei modernisti? E della follia dei giovani poeti «realvisceralisti» che nel 1976 seminavano il disordine nelle sale di lettura delle biblioteche di Città del Messico?
«Ben poco. Letteratura. Ma la letteratura – aggiunge Bolaño – non ha alcun valore se non è accompagnata da qualcosa di più luminoso del mero atto di sopravvivere».


Poesia e personaggi

Il mondo romanzesco di Bolaño è sovrappopolato di poeti, scrittori, critici letterari. Ma soprattutto di poeti.
Una folla di poeti inventati: Carlos Wieder, il poeta che ama l’arte della tortura di Stella distante (1996); Auxilio Lacouture di Amuleto (1999), che non è una poetessa, ma «la madre della poesia messicana» e l’amica di tutti i poeti – i vari Arturo Belano, Ernesto San Epifanio, Lilian Serpas, León Felipe, Pedro Garfias – perduti nella «disperazione congetturale» del tempo «senza ordine né successione rispetto al passato e rispetto al futuro» che si fa strada nella sua stessa memoria e nella memoria delle strade di Città del Messico; il poeta B, emigrato dal Cile in Spagna, protagonista di un racconto tratto dalla raccolta Puttane assassine (2001), che cammina per le vie di Parigi e Bruxelles sfogliando un’obsoleta rivista d’avanguardia sulle tracce di uno dei suoi collaboratori, defunto da molto tempo; Enrique Martín, il personaggio del racconto eponimo incluso nella raccolta Chiamate telefoniche, che vuole a tutti i costi essere poeta. La sua tenacia, narra l’amico e narratore, il poeta Arturo Belano, era «cieca e acritica», come quella «dei cattivi pistoleri dei film, quelli che cadono come mosche sotto le pallottole dell’eroe e che tuttavia perseverano in modo suicida».

E una folla di poeti dall’incontestabile esistenza storica: José Emilio Pacheco (1939), il poeta messicano, autore di raccolte come Los elementos de la noche (1963) o No me pregunten cómo pasa el tiempo (1969), amico di Carlos Monsiváis e Sergio Pitol, nonché traduttore di Beckett e Marcel Schwob che, nella parte di confidente di Auxilio Lacouture, la protagonista e voce narrante di Amuleto, svela i segreti dell’incontro tra Ezra Pound e W. B. Yeats, così come fantastica sul valore dell’incontro mancato tra Ruben Darío e Vicente Huidobro; Auxilio Lacouture, la protagonista di Amuleto, che snocciola, con l’aiuto di quella che chiama «la voce dei sogni», un lungo rosario di profezie sul destino di molti poeti e scrittori del XX secolo, tutti rigorosamente dotati di certificato di nascita e di morte: «Paul Celan rinascerà dalle sue ceneri nel 2113. André Breton rinascerà dagli specchi nel 2071. Max Jacob non sarà più letto, cioè, il suo ultimo lettore scomparirà nel 2059 […] Virginia Woolf si reincarnerà in una narratrice argentina nel 2076 […] Louis Ferdinand Céline farà la sua entrata nel Purgatorio nel 2094 […] Paul Éluard sarà un poeta di massa nel 2101»; il premio Nobel Octavio Paz, «il nemico» dei poeti realvisceralisti nel romanzo I detective selvaggi; César Vallejo (1892-1938), il grande poeta modernista peruviano, autore di raccolte esplosive come Trilce (1922), o della silloge postuma, uscita nel 1939, Poemas humanos (titolo ironico, poiché di umano nell’umanità rappresentata da Vallejo c’è rimasto ben poco), sul suo letto di morte a Parigi in Monsieur Pain (1999); Pablo Neruda che declama alcuni versi alla luna in Notturno cileno (2002).
Una folla di poeti inventati che, a volte, amano coesistere con una folla di poeti la cui vita e la cui opera sono storicamente documentate. È il caso, ad esempio, dell’incontro onirico tra un personaggio chiamato Roberto Bolaño e il poeta cileno nato nel 1929 e ormai defunto Enrique Lihn di un racconto di Puttane assassine. È il caso soprattutto de La letteratura nazista in America (1996).

In questo romanzo, che è costruito come un manuale di letteratura, dotato di note e di apparato bibliografico, tutto è scrupolosamente “falso”. I personaggi – un folto gruppo di poeti nati nelle Americhe la cui biografia è costellata di inverosimili peripezie intellettuali descritte con puntigliosa serietà – sono uniti dall’appartenenza in massa a una sorte di Ur-Reich ariano delle lettere. Tutto è assurdo! Ciò, tuttavia, non è di nessun ostacolo al fatto che Jorge Luis Borges o Julio Cortázar, ad esempio, si ritrovino irretiti indirettamente nelle complicate vicende dell’intellighenzia di ispirazione hitleriana. O che, ad esempio, un certo Max Mirebalais, alias Max Kasimir, alias Max von Hauptmann, alias Max Le Gueule, alias Jacques Artibonito, nato nel 1941 a Port-au Prince e morto a Les Cayes nel 1998 (Bolaño pubblica il libro, lo ricordo, nel 1996!), diventi poeta plagiando i lavori d’Aimé Césaire. Gli altri poeti di Port-au-Prince fiutano immediatamente la truffa. Max, dal canto suo, non si dà per vinto. Imprime una svolta decisiva alla sua sperimentazione linguistica e comincia a plagiare le liriche di René Depestre. Poi quelle di George Desportes. Poi quelle di Édouard Glissant. E, siccome non è affatto un idiota, moltiplica progressivamente con «pazienza d’artigiano» le sue fonti e i suoi eteronimi, ottenendo finalmente la considerazione dei critici. Il trionfo avverrà allorché, nel 1971, pubblicherà con il nome di Max Kasimir alcune poesie di Senghor risalenti al 1948. Scopo estetico di Max è quello di diventare un poeta nazionalsocialista, ma senza per questo rinunciare «a un certo tipo di negritudine». Il modello del romanzo è il catalogo – il cui riflesso stilistico è l’enumerazione di nomi propri, opere, date – dove lo spazio tra immaginazione e documento storico, arricchito da un’erudizione parodistica, risulta allo stesso tempo ludico e indecidibile: secondo la linea genealogica che dalle Vite immaginarie di Schwob, attraverso i Ritratti reali e immaginari di Alfonso Reyes, giunge a Finzioni di Borges.

I poeti rappresentati nelle pagine dell’opera di Bolaño sono spesso giovani, spesso legati a un’avanguardia degli anni sessanta e settanta. Poeti ammaliati da qualche magia nera. Dalla follia, dal deserto, dal male. Vittime dei tiri mancini della vita. Vittime ammaliate dal mito stesso della poesia.
Di solito i poeti sono messicani. A volte, argentini, cileni, o poeti latinoamericani che vivono in Europa, soprattutto in Spagna. O in Francia, con pellegrinaggi in Belgio, in Italia, in Russia. O altrove.
C’è un racconto di Puttane assassine, in cui il poeta Arturo Belano – che incontriamo più di una volta nell’opera di Bolaño (come rappresentante del «realvisceralismo», ad esempio, lo ritroviamo in compagnia del suo compagno di avventure Ulises Lima, protagonista del romanzo I detective selvaggi) – è in un villaggio dell’Africa, dove sta sfogliando un album fotografico sulla poesia di lingua francese della seconda metà del XX secolo.
In 2666 la scena di una parte del romanzo è dominata da quattro professori di letteratura, un francese, un italiano, uno spagnolo e un’inglese che hanno in comune l’amore per l’opera di Beno von Archimboldi, uno scrittore tedesco che si dice abiti a Santa Teresa, una piccola cittadina situata alla frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti, tristemente celebre per gli stupri e gli omicidi compiuti ai danni di centinaia di giovani donne.


Poesia e crimini

In Bolaño la geografia della poesia è molto vasta.
L’enigma, tuttavia, che si trova al centro della sua opera consiste in questo: che la poesia possa coesistere con la Storia; o meglio, che i crimini della Storia possano coesistere con la poesia; che i poeti possano, in particolari condizioni storiche, trasformarsi in criminali; che la poesia, oscurata dai crimini della Storia, possa essere interpretata come un crimine, cioè come qualcosa di non necessario alla sopravvivenza umana.

Ciò è tanto più vero dal momento che la Storia che Bolaño esplora non si concentra soltanto su una delle molteplici varianti latinoamericane dei totalitarismi del XX secolo: la cruenta caduta di Allende; l’insediamento del regime golpista di Pinochet; gli interrogatori e le torture; l’esilio in massa; la scomparsa di migliaia di persone; i morti senza tomba. La sua esplorazione supera le frontiere geografiche del Cile, del Messico, dell’America Latina e quelle temporali degli anni sessanta e settanta. Ritorna a vivere le vicende della seconda guerra mondiale, i suoi effetti in Europa e in America Latina, e si spinge ancora più indietro, negli anni dieci e venti, alle radici moderne del mondo e dell’arte. Poi, con lucidità e umorismo, attraversa il deserto europeo degli anni ottanta e l’epoca post-comunista e si perde nuovamente, alla fine degli anni novanta, nel deserto di Sonora, dove si ritrovano Juan García Madero, il giovane poeta «realvisceralista» di Detective selvaggi, e Lupe, la puttana adolescente, in fuga dal suo protettore.

Il XX secolo, nelle opere di Bolaño, viene percorso seguendo i labirinti o le cloache in cui scorre una «disperazione congetturale» del tempo che comporta la creazione di un mondo possibile in cui tutto ciò che appartiene al mondo “reale”, storicamente documentato, viene convocato, interpellato, messo alla prova. Per questo nei racconti e nei romanzi di Bolaño troviamo spesso, accanto a personaggi inventati, molti personaggi fittizi la cui identità storica è incontestabile. Non è un caso che questi personaggi fittizi e allo stesso tempo storici siano dei poeti, degli uomini di lettere.
L’ideale di Bolaño risiede nel creare uno spazio estetico in cui la memoria storica sia costantemente assediata dalla memoria poetica – dalle voci della poesia, le voci senza le quali la Storia sarebbe soltanto una sequela di sacrifici, di violenze, di equivoci –, cioè dalla sola memoria in grado di ricordare ciò che non è «veramente» accaduto, e perciò stesso capace di mettere alla berlina la Storia. Come se il tribunale della Poesia chiamasse a testimoniare i colpevoli della Storia. E il giudizio della Poesia fosse un canto antilirico e irriverente, un canto-amuleto, fatto di specchi, piacere e desiderio, grazie al quale è permesso a noi lettori, esseri storici e limitati, di attraversare la frontiera della “realtà”.

Da qui una delle strategie dello scrittore: costruire un personaggio narrante la cui memoria storica deve fare i conti continuamente con la memoria poetica. Tale lotta svincola il personaggio dalle leggi della verosimiglianza e lo rende libero di spaziare nel tempo. In questo modo egli ottiene un ulteriore risultato: grazie a una tecnica digressiva spesso incessante – riflesso letterario della sequela di sacrifici, violenze e equivoci che è la Storia – il personaggio viaggia oltre gli angusti confini della propria personalità e oltre i confini del proprio tempo. La biografia del personaggio – è il caso emblematico di Auxilio Lacouture, la protagonista di Amuleto – si sovrappone alla “biografia” di un paese, e quest’ultima alla “biografia” di un’epoca.
Anche quando Bolaño si concentra sul Cile degli anni più bui, egli coglie un intero secolo e un mondo.

Nel romanzo Notturno cileno il protagonista, Sebastián Urrutia Lacroix, poeta, critico letterario, prete e membro dell’Opus Dei è sul suo letto di morte. Durante una sola notte – probabilmente l’ultima – riversa su un invisibile interlocutore la sua coscienza. Emergono così dal racconto avvenimenti e personaggi di un’intera vita. Il protagonista, dopo aver descritto la sua entrata nel mondo delle lettere grazie a un lontano incontro con Farewell, il più importante critico letterario cileno, ricorda il momento in cui fu incaricato dal signor Oido e dal signor Odeim, due tipi misteriosi (assomigliano ai due sorveglianti di K. del Processo, ma possiedono anche qualche affinità con il Filidor e il Filibert di Ferdydurke di Gombrowicz), di impartire lezioni di marxismo al generale Pinochet e alla sua giunta militare. Nel corso del quinto incontro Urrutia, dopo aver commentato un testo di Engels, declama alla presenza del dittatore e della lunaL’infinito di Leopardi. Pinochet non mostra nessun interesse. «Una bella poesia», si limita a dire. Durante la sesta lezione, l’insegnante assiste a una discussione tra Pinochet e un generale sul caso di una donna diventata l’amante di due cubani. «Parliamo di una donna o di una cagna?», inveisce il dittatore. Urrutia si ricorda di alcuni versi di una poesia dedicata a una donna perduta che qualche sera prima, spiegando alcuni passaggi della Concezione materialistica della storia, aveva cominciato a comporre mentalmente. Come spesso accade in Bolaño siamo precipitati in uno scherzo dove nulla è verosimile ma tutto è “vero”: Pinochet, l’Opus Dei, la Chiesa alleata al regime, il marxismo, il fascismo, la destra, la sinistra, Cuba, la donna, puttana e musa ispiratrice. Il Cile del XX secolo è racchiuso in alcune sequenze. Non solo: il mondo occidentale è stato condensato vertiginosamente in uno spazio ridottissimo.
Al centro della deformazione grottesca di Bolaño non c’è, in questo caso, l’ignoranza dei dittatori. Pinochet s’impegna seriamente per comprendere i fondamenti del marxismo. In una conversazione privata con Urrutia gli confessa che tutti i capi di stato che l’hanno preceduto, incluso Allende, non erano «uomini da libri, ma piuttosto uomini da giornali». Lui, al contrario, sebbene introvabili perché pubblicati da case editrici marginali, ha scritto tre libri. Legge romanzi. Non ha affatto paura di studiare. Scrive «costantemente».

La domanda – e uno dei grandi enigmi del XX secolo – che Bolaño si pone è: come possono coesistere nella stessa scena e perfino nello stesso individuo la poesia e il crimine? (Milan Kundera, nel 1973, proprio nell’anno del golpe militare di Pinochet, pubblica La vita è altrove, dove domina, in una situazione storica diversa, la stessa interrogazione). Come mai la lettura degli antichi poeti greci, di Dante e Cavalcanti, dei classici spagnoli e francesi, di Whitman, di Pound, di Eliot, di Neruda, di Borges, di César Vallejo non è in grado di impedire a Urrutia di essere così ossequiente alle lusinghe dei criminali, così affascinato dalla loro personalità?

Si tratta forse dello stesso fascino a cui soggiace, all’epoca dell’occupazione tedesca di Parigi – secondo quanto riferito da un testimone in una conversazione che Urrutia intrattiene in un circolo letterario –, Ernst Jünger, inguainato nella sua uniforme di ufficiale della Wehrmacht, quando si sofferma rapito da un quadro surrealista, opera di un malinconico pittore guatemalteco in esilio?
La seduzione di fronte a un quadro surrealista è della stessa natura di quella che si prova di fronte al potere criminale di un dittatore? Forse. Quel che è certo è che gli artisti, i poeti, gli scrittori, per vivere, hanno soprattutto bisogno di conversare, di riunirsi: hanno bisogno della «vicinanza fisica di altri scrittori».

È il caso di María Canales, donna ricca, attraente, scrittrice alle prime armi e di un certo talento, che decide di accogliere regolarmente nella sua villa i colleghi più celebri, mentre nello scantinato suo marito Jimmy, un agente statunitense al soldo dei servizi segreti cileni, interroga e tortura con scariche elettriche, dopo averle denudate e immobilizzate, decine di persone. Gli incontri letterari al primo piano, così come gli interrogatori e le torture nello scantinato, proseguono parallelamente per anni.
L’enigma della «vicinanza fisica» del poeta e del boia, tuttavia, non è ad esclusivo appannaggio di un momento storico o di una sola nazione.
Urrutia, dal suo letto di morte, naviga nella memoria. Si ricorda quando, dopo la fine del regime di Pinochet, ha fatto visita a María Canales, scoprendo altri dettagli sull’atroce episodio di cui lui stesso, come invitato alle riunioni letterarie, era stato un inconsapevole testimone. Mentre sta tornando in auto verso Santiago, ripensa alle ultime parole che María ha appena pronunciato sotto un cielo stellato: «Così si fa la letteratura in Cile». Che cosa significano, si chiede ora in auto? Che fare letteratura in Cile, senza tale «vicinanza fisica» tra poesia e crimine è impossibile? Forse. In ogni caso, Urrutia è sicuro che tale «vicinanza fisica» dipende dalla comune consuetudine del poeta e del boia all’orrore. È questa consuetudine all’orrore il vero enigma dell’uomo? Una consuetudine che unisce Jimmy, sua moglie, Ernst Jünger, Farewell, Urrutia, il pittore guatemalteco in esilio, tutti i criminali nascosti negli scantinati di tutte le ville di Santiago e tutti i poeti che nello stesso istante commentano al piano di sopra un verso di Leopardi? Era stata la consuetudine all’orrore che aveva provocato un allentamento della sorveglianza da parte del marito di María, così come era stata la stessa consuetudine all’orrore che aveva fatto restare in silenzio lo scrittore che, smarritosi nei corridoi della casa di María Canales, per primo e per caso aveva scoperto nello scantinato un uomo nudo, con gli occhi bendati e legato a un letto metallico. La consuetudine all’orrore produce dei «pozzi neri» nella memoria: gli stessi che l’ufficiale della Wehrmacht Ernst Jünger, in un atelier di Parigi, evoca guardando il quadro surrealista di un pittore guatemalteco e che, negli anni novanta del XX secolo, provocano il riflusso del popolo nella noia, questa «portaerei gigantesca che circumnaviga l’immaginario cileno».
La consuetudine all’orrore, «i pozzi neri» della memoria, la noia, e sullo sfondo la Storia cilena che non muta, la casa di María Canales in rovina.
Qualcosa, tuttavia, non si cancella dall’immaginario cileno di ogni tempo: «per fare letteratura» è necessaria «la vicinanza fisica» degli scrittori e dei boia. Ma non solo in Cile, riflette Urrutia sulla strada per Santiago: «Anche in Argentina e in Messico, in Guatemala e in Uruguay, e in Spagna e in Francia e in Germania, e nella verde Inghilterra e nell’allegra Italia. Così si fa letteratura. O quello che noi, per non cadere nell’immondezzaio, chiamiamo letteratura».

Un po’ più in là – siamo alla fine del romanzo – Urrutia, dal suo letto di morte, lo ripete ancora una volta al «giovanotto invecchiato», che è il suo interlocutore muto e che, come un’angelica presenza, lo ha fin dal principio gettato nell’inferno del discredito, dell’infamia e della colpa, e agli occhi invisibili del quale, egli, attraverso un’estrema confessione, cerca di riscattarsi:

Così si fa la letteratura in Cile. Così si fa la letteratura in Occidente. Ficcatelo bene in testa, gli dico. Il giovanotto invecchiato, quello che di lui rimane, muove le labbra formulando un no che non si sente. La mia forza mentale l’ha fermato. O forse è stata la storia. Uno da solo può poco contro la storia. Il giovanotto invecchiato è sempre stato solo e io sono sempre stato con la storia.

Il romanzo termina con il volto di Urrutia, deformato dalla consuetudine all’orrore, che si domanda se non sia lui stesso «il giovanotto invecchiato» che urla e che nessuno ascolta.


Poesia e canaglie

Ci sono ancora due aspetti.
Il personaggio del giovane poeta che incontriamo spesso nelle opere di Bolaño non è un poeta romantico. È generoso. È valiente, coraggioso. Ma non è un poeta lirico (non assomiglia a Jaromil, il protagonista de La vita è altrove di Milan Kundera, la cui giovinezza coincide con il suo «atteggiamento lirico»). Ha creduto nella rivoluzione, ma non è diventato un rivoluzionario. Non si trova mai dalla parte della Storia (è della stessa specie dei Boris Davidovic, il personaggio del romanzo di Kis, sebbene non abbia dovuto sperimentare la sua totale disintegrazione fisica e spirituale. Bolaño, nei suoi saggi, non cita mai il nome di Kis. Eppure, a mio avviso, è uno dei suoi fratelli spirituali). Non scrive poesia civile (Lorca, Neruda, Breton, Éluard, ad esempio, sono dei poeti rispettati da Bolaño. Tuttavia, l’adesione sentimentale all’ideologia politica di molte loro poesie non lo riguarda). È ironico. A volte l’ironia corre parallela a una vena patetica. Ma il pathos è sempre spezzato dalla lama della provocazione intellettuale che nasce dalla sua fedeltà allo spirito «selvaggio» dell’avanguardia. Per lui valgono le parole che Bolaño ha scritto in onore di uno dei suoi maestri più venerati, il poeta cileno Nicanor Parra: «Scrive sul dolore e la solitudine, sulle sfide inutili e necessarie, sulle parole che sono condannate a disgregarsi, così come la tribù che le ha proferite. Parra scrive come se il giorno dopo dovesse essere eseguita la sua condanna a morte sulla sedia elettrica». Parra, continua Bolaño, «è riuscito a sopravvivere». Non è poco, sopravvivere. Malgrado la sua giovane età il personaggio-poeta lo sa: «Meglio perdere i propri manoscritti che la vita». Da qui il suo slancio metafisico. Da qui il suo humour.

In Un altro racconto russo, che si trova nella raccolta Chiamate telefoniche, c’è una passaggio in cui credo di cogliere l’essenza dell’opera di Bolaño, l’opera, cioè, di un poeta antilirico, di un superstite della modernità e del suo spirito irriverente nei confronti della terribile serietà della Storia che, pure, ci ammonisce di non perdere, per quanto la Storia si faccia violenta e insensata, quello spirito; di qualcuno consapevole che la vita vale sempre più dei propri manoscritti e che la letteratura, sebbene abbia bisogno di qualcosa di «più luminoso del mero atto di sopravvivere», può, se autenticamente vissuta, aiutare a sopravvivere; di chi non dimentica che nel tempo in cui vive, un tempo in cui la necessità di sopravvivere è tale da mettere a repentaglio ogni altra forma di sopravvivenza spirituale, la linea di frontiera tra orrore e comico è sempre più labile.

Il racconto narra di un coscritto spagnolo, un sivigliano, piccolo e secco, che durante la seconda guerra mondiale si ritrova sbattuto sul fronte russo. La parola «coscritto», a forza di essergli ripetuta dai commilitoni, si trasforma nella sua testa, «nella parte oscura» della sua testa, nella parola «corista», a tal punto che, quasi per caso un giorno si ritrova a dirigere un coro di soldati. Giunge il tempo di combattere. È ferito, ed è costretto a trascorrere due settimane all’ospedale militare. Rimessosi, è inviato per errore presso un battaglione delle SS, lontano dal reggimento. È triste. La parola «coscritto», nella «parte oscura» della sua testa ricomincia a usurpare quella di «corista». Un giorno la caserma è messa a ferro e fuoco dai russi. È fatto prigioniero e, legato su una sedia, attende tremante di essere torturato. Non conosce né il tedesco né il russo. Nessuno, fra i russi conosce lo spagnolo. La situazione è disperata. Un soldato gli apre la bocca e con un paio di tenaglie sta per strappargli la lingua: «Il dolore che sentì lo fece lacrimare e disse, o meglio gridò la parola “Cazzo!”. Con le tenaglie in bocca l’imprecazione si trasformò e uscì nell’aria tramutata nell’ululante parola Kunst». Il soldato, che conosce il tedesco, si ferma colmo di stupore. La parola Kunst, che in tedesco significa «arte», ha un potere straordinario: «La parola arte. Ciò che ammansisce le belve». Il «coscritto» diventato «corista» e quindi di nuovo «coscritto» si trasforma, grazie alla magia di una parola, improvvisamente in artista: «La parola cazzo, tramutata nella parola arte, gli aveva salvato la vita».

Ma c’è dell’altro. Per il personaggio che incarna il poeta tutto è possibile. Che cosa voglio dire? Che, per Bolaño, la vita di colui che si dedica alla poesia è una vita romanzesca: come se nel poeta coesistessero un erudito e un avventuriero, un uomo di lettere e un senza tetto; come se tra le peripezie della parola e le peripezie della strada ci fosse una relazione necessaria; come se tra la lingua della poesia e la lingua della gente che vive ai margini della società – questa folla di umanità miserabile, pericolosa ed eroica, che popola sempre più il nostro mondo – ci fosse una relazione in grado di sprigionare una desolata promessa di bellezza.

All’inizio della terza e ultima parte de I detective selvaggi Juan García Madero, il giovane poeta «realvisceralista» e voce narrante, è in auto con gli amici e indiscussi capifila del realvisceralismo messicano Arturo Belano e Ulises Lima. Con loro c’è Lupe, la puttana adolescente che il trio ha strappato al protettore. Si stanno dirigendo verso lo stato di Sonora, un territorio desertico e costellato di pueblos, alla ricerca di Cesárea Tinajero, la fondatrice storica del movimento. Juan, per intrattenere i suoi amici, incomincia a sciorinare, una dopo l’altra, domande sulla metrica. Domande per eruditi. O almeno per poeti avanguardisti non digiuni di retorica antica. «Cos’è uno zefel? […] Un saturnio? […] Un chiasmo? […] Cos’è un proceleusmatico? […] Cos’è un’epanalessi?». Gli amici a volte conoscono la risposta. Nella maggior parte dei casi richiedono una spiegazione. Dopo un breve tratto di strada in cui si è addormentato, Juan, risvegliatosi, riprende il gioco degli indovinelli. Questa volta comincia a porre domande sul significato di alcuni vocaboli ripresi dal gergo dei bassifondi di Città del Messico: «Sapete cos’è un’albata?». Silenzio. Subito tutti cercano di scovare qualche parola bizzarra. Perfino Lupe, la piccola puttana, si diverte a domandare il significato di alcune espressioni volgari e pittoresche: l’argomento, ovviamente, le è molto meno estraneo della metrica. Il gioco termina. Cala la sera. L’auto continua a vagare per le strade del Messico. Improvvisamente Juan domanda: «Che cos’è un epicedio?». E il passatempo ricomincia.

Perché un rosario di domande sul significato di parole come «chiasmo» o «saturnio» o «epanalessi» riesce a interessare una puttanella di Città del Messico? Perché una domanda sul significato della parola «chiasmo» o «saturnio» o «epanalessi» innesca un altro rosario di domande sul significato di parole come «albata» o «super carranza» o «lurias» tratte dal gergo della delinquenza? C’è una relazione necessaria tra la parola «chiasmo» e la parola «super carranza»? Tra il linguaggio dei poeti e quello delle canaglie? O si tratta soltanto di un gioco? Di un gioco linguistico? Per Juan – come per Lima e Belano – l’indovinello non cancella la delicatezza della domanda («Per intrattenere i miei amici – afferma Juan – feci certe domande delicate, che sono anche problemi, enigmi»). L’erudizione, nel 1976, sulle strade di Sonora , non esclude né la dimensione ludica né il mondo «là fuori», il mondo della prosa, il mondo difficile, pericoloso, violento, tragicomico, perduto dei pueblos e della capitale.

Nessuno a Città del Messico sa per davvero che cosa Belano e Lima facciano tutto il giorno. I loro spostamenti sono frequenti e segreti. Dicono di essere impegnati in un’inchiesta. Tuttavia Juan García Madero sospetta che consegnino piccole dosi di droga a domicilio.
«Delinquente» viene dal verbo latino delinquere, che significa «commettere un crimine contro l’ordine stabilito». Ma in origine il verbo significava anche «lasciare ai margini» o «essere in difetto». Il poeta, individuo per vocazione ai margini della società e a cui fa sempre difetto qualcosa, è degno, secondo Bolaño, di essere posto al centro della rappresentazione romanzesca soltanto nel caso non rinunci a concepire la poesia come un atto di trasgressione contro l’ordine stabilito. Il poeta, in Bolanõ, delinque spontaneamente, manifestandosi per ciò che è. Egli è il suo stesso misterioso crimine. E, allo stesso tempo, è un «detective» sulle tracce di un crimine misterioso, o, che è lo stesso, alla ricerca di qualche suo simile. Ciò non significa affatto che debba trasformarsi in un criminale. Anzi, per non trasformarsi in un vero criminale politico o in un silenzioso collaboratore dei propri aguzzini, gli è sufficiente esplorare l’esistenza dei suoi naturali alleati – naturali, perché ai margini e perché, in un modo o in un altro, essere difettosi –, tutta quella folla che popola i libri di Bolaño, composta da vagabondi, puttane, regine del porno, «cazzoni meticci», piccoli farabutti, emigrati, calciatori sfortunati, ex campioni di culturismo, vecchi scialacquatori, buoni a nulla, gauchos insopportabili. La relazione tra il poeta e questa folla di emarginati, se è naturale, non per questo è sentimentale. Egli li guarda con distacco.

Rappresentano un inesauribile laboratorio della sofferenza umana. E della crudeltà umana. Un bazar di inquisizioni e torture, tanto più romanzesco quanto più immerso nell’irreale quotidianità della cosiddetta civiltà di massa. Il poeta, «orfano combattente», condivide per un tratto la loro vita, condivide la loro «anormalità», il loro essere perduti, il loro essere, come lui, dei «superstiti nati». E così facendo egli, il poeta erudito e «selvaggio», il cronista dei crimini quotidiani e dei crimini contro il gusto, lontano da chi sta dalla parte della Storia e mai schierato dalla parte del buon gusto, irriverente nei confronti di ogni criminale rispettabilità dell’arte, ci illumina sull’infinita varietà di tutto ciò che è irrimediabilmente vivo e ci attende.


Jim

Nell’ultima raccolta di racconti e saggi che Bolaño pubblicò da vivo, intitolata Il gaucho insostenibile (2003), ce n’è uno, il primo e il più breve, che è la storia di un fuggevole incontro in una strada di Città del Messico tra il narratore, un giovane di diciotto o diciannove anni, e il suo amico Jim (il nome dà il titolo al racconto), il nordamericano più triste che il ragazzo abbia mai conosciuto.
Jim è poeta.

In che cosa consiste la poesia, Jim? – gli domandavano i bambini mendicanti di Città del Messico. Jim li ascoltava, guardava le nuvole e poi vuotava il sacco. Lessico, eloquenza, ricerca della verità. Epifania. Come quando ti appare la Madonna.

Un po’ più in là si scopre che Jim, prima di diventare poeta, è stato un marine, un veterano del Vietnam che ha deciso di farla finita con l’uso della violenza. La sua decisione è stata talmente radicale che rifiuta di difendersi persino dagli assalti dei ladruncoli. «Ora sono un poeta e cerco ciò che è straordinario allo scopo di dirlo con parole semplici e quotidiane». Il narratore e Jim s’incrociano su un marciapiedi dove un mangiatore di fuoco a torso nudo si sta esibendo. Jim ne è stregato, quasi avesse intuito nel volto di quello strano personaggio i tratti «di un vecchio amico o di qualcuno che aveva ucciso». Il narratore si accorge che Jim ha la febbre. Suda. Piange. È malato? O è sotto l’effetto di qualche droga? Lo osserva mentre si avvicina alle fiamme: «Vuoi farti arrostire per la strada?», gli chiede scherzando. È proprio quello che Jim spera: «Farsi arrostire sulla strada».

D’un tratto comincia a risuonargli in testa un motivetto di un pezzo funky alla moda: «Stregato, fottuto/Stregato, fottuto». Jim, afferma il narratore, era stato stregato e fottuto dai miraggi di Città del Messico e ora «guardava dritto in faccia i suoi fantasmi». Il tempo per il ragazzo di spingere Jim lontano dal marciapiede dove le fiamme del mangiatore di fuoco lo stanno per raggiungere, che i due si perdono di vista.

Jim, «stregato» e «fottuto» dentro un miraggio chiamato Città del Messico, è il nostro fantasma, il nostro incubo. E il nostro simulacro di salvezza.

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